lunedì 30 dicembre 2013

Trema la terra, tremano le gambe


In questo mondo pieno di contraddizioni non posso fare a meno di notare come un avvenimento potenzialmente drammatico possa trasformarsi in motivo di aggregazione. Me ne resi conto con la morte di Giovanni Paolo II per la prima volta, ma in realtà c'erano già state altre prime volte senza nemmeno che me ne fossi accorto. Il Papa era morto ma una folla impressionante di fedeli si ritrovò a fare quadrato, unita nel dolore. Poi altre circostanze drammatiche hanno invaso la mia vita rafforzando questa tesi. Una volta credevo di aver commesso un omicidio, ma per fortuna mi sbagliavo. Ero nella mia Panda, un signore attraversò la corsia d'improvviso e lo investii. Riuscii a frenare all'ultimo secondo solo grazie all'aiuto di chi mi era accanto, altrimenti sarebbe andata diversamente. Sono sicuro che rivedendo quella persona la inviterei a prendere un caffè per scambiare quattro chiacchiere. E sono ancora più sicuro che lui quelle quattro chiacchiere con me le scambierebbe volentieri. Eppure quel giorno potevamo rimetterci al vita entrambi. Lui avrebbe potuto morire, io non avrei sopportato il peso di una cosa simile. 

Ma aldilà di questo, delle circostanze che mi portarono a compiere maldestramente un gesto simile e delle conseguenze che si ripercossero sul mio modo di vivere le due settimane successive, resta la stranezza. Le emozioni forti uniscono le persone, e la natura di queste emozioni conta davvero poco. 

Circa mezz'ora dopo la scossa di ieri pomeriggio sento  squillare il telefono di casa. Il prefisso è di quelli inusuali: "059". Mai visto, ma considerando che era domenica la probabilità che fosse un call center erano minime. La telefonata arrivava da Modena e dall'altro capo del telefono c'era una certa "Zia Grazia". Una voce anziana, che non avevo mai sentito in vita mia. Probabilmente l'avrò anche sentita in passato, ma se così fosse mi gioco qualsiasi cosa che ero talmente piccolo da ricordarmene. "State tutti bene, sono preoccupatissima". Mai sentita per gli auguri, mai vista di persona dopo i 4 anni di età, mai ragionato dell'esistenza di una cugina di mio nonno stabilitasi in Emilia. Eppure era preoccupata per me. Mi chiamava per nome e aveva una voce di quelle che non riescono proprio a fingere. 

Chiamiamoli pure legami di sangue, ma cos'è questa telefonata se non qualcosa di aggregante? Ero solo in casa, ma quando sono tornati i miei ho fatto richiamare a quello strano numero. Papà è stato mezz'ora al telefono aggiornando questa zia di eventi verificatisi negli ultimi due, tre anni. Ai tempi del web 2.0 mi è sembrata davvero una cosa fuori dal mondo. Mi ha ricordato di quando giocavo con la palla nel salone dei miei nonni, ancora ignaro di cosa fossero un computer e un cellulare. Un modo alternativo di parlarsi che credo andrà scemando via via. Così come vedo sempre meno bambini conoscere l'esistenza del Subbuteo, gioco da tavolo sul calcio che mi ha giocato un ruolo decisivo sulle mie ambizioni. Prendevo i giocatori, li disponevo in campo e iniziavo a fare una partita da solo. Avevo otto anni, mia nonna era uno splendore e mi ascoltava mentre facevo la telecronaca di un'improbabile partita. 
A proposito, nonna... vabbé. Te ne parlo la prossima volta.

Francio



martedì 3 dicembre 2013

Lettera a Santa Claus

Caro Babbo Natale,
sono trascorsi tre lustri da quando ho capito che non esisti per davvero. E quando si comincia a ragionare per lustri, lo sai meglio di me tu che hai i capelli bianchi, vuol dire che ci si sta avviando a non essere più bambini.

Eravamo in macchina fermi ai semafori che dividono il Rione Ferrovia dal resto della città, quando sparisti improvvisamente dal sedile posteriore volando via come un dolce ricordo. Lo sai, ho sempre avuto quel brutto vizio di fare troppe domande a costo di mettere in difficoltà l'interlocutore, eppure quella sera di dicembre tutto partì dai miei genitori: "Ancora non ci hai detto cosa vuoi che ti porti Babbo Natale, perchè non ne parliamo?". Non glielo avevo detto perchè non volevo svelare nulla. Ti avevo scritto una lettera in modo che solo tu sapessi cosa ci fosse scritto all'interno, poi l'avevo nascosta in un cassetto come si usa fare con i sogni.

"Quest'anno non voglio dirvelo, sarà una sorpresa anche per voi". Risposi fieramente dal basso dei miei otto anni. Notai fin da subito che non ne furono felici. Anzi, disorientati è il termine giusto. Avevo condiviso qualsiasi idea con loro fino a quel momento, e nascondergli i contenuti di un mio desiderio doveva sembrargli una cosa da adolescenti, più che da bambini. Ma se c'è una cosa che mi ha sempre lasciato un senso di disagio (e sono certo che sai anche questo...) quella è il silenzio. Mi riferisco al silenzio immotivato, quel genere di silenzio che fa seguito ad un'affermazione seria. Quello che arriva quando invece sei più che sicuro che il tuo interlocutore dirà qualcosa per controbattere.

Niente, loro non parlarono. Non so tu come avresti reagito, ma so quello che feci io. Rincarai la dose.  "Ma posso chiedervi perchè volete saperlo?". Niente. Ancora silenzio, silenzio, silenzio. Fino alla domanda più triste, che da ventitreenne ora paragonerei ad un "Quindi non mi ami più?" rivolto alla propria fidanzata in un momento di crisi.  "Voi pensate che Babbo Natale non esiste, vero?". Inutile dirlo. Silenzio.

Ho sempre ritenuto che non seppero comportarsi. Nelle parole non furono abbastanza lucidi e le loro menti risultarono incapaci di qualsiasi tipo di improvvisazione. Papà alla guida, mamma accanto e io dietro di loro insieme a te. Avevo otto anni, che a molti potrebbero anche sembrare troppi per un bambino che smette di credere in Santa Claus, ma ti assicuro che non lo sono mai stati per uno che i bambini li adora. Il fatto che quella sera sia ancora stampata nella mia mente, poi, la dice lunga sulla mia ammirazione nei tuoi confronti. Non sono riuscito a dimenticarla nemmeno a distanza di quindici anni, ricordando dettagli che in altre circostanze brucerei in un baleno.

Siamo al 3 dicembre ed è presto per parlare di alberi, regali, renne e qualsiasi altro tipo di cosa legata alla Festività più amata nel mondo, ma ricordo che era proprio di questi tempi che da piccolo impugnavo la penna, prendevo un foglio, e scrivevo righe improbabili colme di complimenti rivolti a te, una sorta di nonno vestito di rosso. Internet ancora non esisteva e le lettere impiegano generalmente diverso tempo per arrivare in Finlandia.  Il vantaggio di avere un blog, tuttavia, sta tutto nel poterti scrivere qualcosa senza preoccuparmi della mia terribile calligrafia. Quella è cambiata pochissimo, nonostante gli anni. E' fatta un po' come me...

Francesco


lunedì 11 novembre 2013

"Dal face to face a Facebook..."



Ricordo di una ragazza al primo anno di Università, a Campobasso. Aveva una certa vitalità ed una predisposizione innata a risultare anticonformista agli occhi di noi altri. Confessò apertamente -  durante una lezione di Sociologia e davanti ad un'aula gremita  - di non possedere il computer e di essere totalmente indifferente all'uso dei social network. 

Ora vi sarà facile immaginare la reazione dei presenti, professore compreso, davanti ad una dichiarazione simile. Ci fossimo trovati ad una riunione degli alcolisti anonimi o ad una sagra enogastronomica la stranezza non sarebbe stata neppure messa in conto. In realtà eravamo nell'Aula "120" di Viale Manzoni, e per giunta ad una lezione di Sociologia della Comunicazione. Insomma: lì il computer o ce l'hai oppure sei strano. 

Sono trascorsi quattro anni e ricordare quell'episodio mi fa ancora un certo effetto. Innanzitutto mi fa presente che sono indietro di brutto con la tabella di marcia relativa alla laurea, ma il nocciolo della questione è rappresentato dal fatto che non ricordi nemmeno il nome di quella ragazza. E non è una dimenticanza giustificata. I nomi dei nostri contatti virtuali, dopotutto, ce li sbattono in faccia i Social. Mica ce li ricordiamo perchè abbiamo un'ottima memoria.

Da quel pomeriggio piovoso molisano, comunque, Facebook ha preso sempre più piede nelle nostre vite e nella mia in particolare. E da quando è arrivato il mio primo smartphone (all'epoca avevo ancora il "vecchio" Nokia N95) sento che la mia esistenza è stata rivoluzionata in modo decisivo. L'umanità che sentivo parte integrante della mia persona è andata via via smarrendosi. Buona parte dei rapporti umani che componevano la mia quotidianità si sono sgretolati per far spazio a finte relazioni virtuali, utili solo illusoriamente a conoscere bene qualcuno. 

Non mi sento schiavo della tecnologia, mi sento più che altro schiavo di quella parte di me che non può farne a meno. Quante persone avvertirebbero la nostra mancanza se non fossimo su Facebook e What's App? A quanti interesserebbe davvero di noi, del nostro lato umano? Quanti vorrebbero conoscerci realmente, al di fuori della sfera virtuale? E poi... vi è mai capitato di uscire con una o più persone e scoprire che queste preferiscono guardare il cellulare e chattare con chi non c'è anziché dialogare di persona, guardando negli occhi l'interlocutore?

In un pomeriggio senza redazione, comunicati stampa, articoli e play station, pensare ad un mondo senza mostri come Facebook e la tecnologia 2.0 in generale è stato quanto di più produttivo sia riuscito a fare. La cosa buffa è che tutto sia partito da quella lezione di un po' di tempo fa nell'Aula 120 e che sia strettamente collegato al titolo del mio tema all'esame di maturità: "Dal face to face a Facebook: cambia il modo di comunicare". Ora come ora, con un po' di esperienza in più, correggerei la seconda parte. 
Non è cambiato solo il modo di comunicare, è cambiato il modo di vivere


Frà

venerdì 11 ottobre 2013

Toh, una busta tutta per me!

Quando avevo tredici anni papà mi portò a Torino, a vedere la Juventus. Sua cugina lavorava nel club, quindi avevamo libero accesso agli allenamenti della squadra. Cosa ci sarebbe di strano? - vi starete chiedendo. In realtà nulla, se non fosse che le sedute erano tutte a porte chiuse per volere dell'allenatore, tale Marcello Lippi che poco più tardi ci avrebbe fatto arrampicare sul tetto del mondo, calcisticamente parlando..

Ma questa è un'altra storia. 

Quel giorno vidi la macchina di Lippi nel parcheggio, mi avvicinai al finestrino e notai una busta appoggiata sul sedile posteriore. Sopra c'era impresso a penna il destinatario "Al Signor Marcello Lippi". Era una di quelle buste che solitamente vengono utilizzate per contenere le fotografie. Per un po' di giorni mi sono stranamente chiesto a ripetizione cosa ci fosse dentro. "Chissà... tattiche? Foto di squadra? O magari una foto della sua famiglia?". A distanza di tempo dico che mi ponevo quesiti stupidissimi. Saranno anche fattacci suoi, no?!.

Oggi pomeriggio una busta simile è stata recapitata proprio a me, al "Signor Carluccio". Buffo, strano, anomalo, ma la prima cosa che mi è passata per la testa è stato proprio l'episodio di quel pomeriggio del 2003. Identica la domanda: "cosa ci sarà dentro?". La differenza è che stavolta potevo saperlo ccon facilità. La busta era tra le mie mani, non ci sarebbe voluto molto ad aprirla. 

Ecco il risultato...




La ritengo una foto bellissima proprio perché non ne sono il protagonista. Anzi, mi verrebbe da chiedere al fotografo cosa volesse inquadrare di preciso. E' l'8 settembre 2013, stadio Carlo Zecchini di Grosseto. Dopo la telecronaca del Ferraris (Sampdoria - Benevento, una serata da sogno che credo appartenga ad una vita parallela), eccomi di fianco ad Antonio per il debutto in campionato. Per chi non lo avesse capito (spero pochi), noi siamo quelli in cima, seduti al tavolo di plastica, "microfonati" e con le cuffie nelle orecchie. Più giù ci sono una serie di componenti della dirigenza giallorossa, ma dalle facce devo dedurre che eravamo ancora in svantaggio 1-0. Sarebbe finita 1-1, il Benevento avrebbe anche potuto vincere, ma ciò che mi interessa maggiormente, ora, è godermi questa fotografia. Di una sconfinata bellezza racchiusa in una sfavillante semplicità.

Frà




mercoledì 9 ottobre 2013

Il saluto più bello



Della vicenda Evacuo ne ho abbastanza. Le cose inutili hanno tutte qualcosa in comune, oltre alla loro futilità. Tutte fanno parlare di sè in modo molto più intenso rispetto alle cose utili. E' un classico. Devo iniziare a pensare che lo si faccia di proposito: approfondiamo gli argomenti di poca sostanza perchè è più semplice affrontare un ragionamento su di essi. Figuriamoci se ci mettiamo a perdere del tempo su argomenti di dibattito più seri, fossero pure il film da consigliare o le preferenze per la cena. No. Il saluto di Felice Evacuo.

Basta. Mi ero promesso di finirla questo pomeriggio. Finalmente un giorno libero dopo 72 ore di puro stress, spese a dare spiegazioni a chiunque mi trovassi a tiro, a scrivere trattati sulla questione, a sfogarmi con la gente a cui voglio maggiormente bene. Basta perchè, fondamentalmente, di questo passo la voglia di entrare in uno stadio non ti viene nemmeno lontanamente. Neppure se devi andarci a scrivere, a fare il lavoro che sognavi da bambino.

E così ho deciso di andare dal barbiere. Ogni volta che vado dal barbiere penso che presto o tardi non ci andrò più. Non per una scelta personale, ma perchè la natura ha voluto così. Quindi eccomi qua ad aspettare che arrivi il mio turno in salotto. Di là una voce familiare chiede opinioni sulla vicenda al "coiffeur": "Pasquà, ma che ne pensi del caso del secolo?"

Al che, incuriosito, drizzo le antenne. Non potevano certo riferirsi ad Evacuo, al suo saluto di ringraziamento alla tifoseria della Nocerina e alla reazione dei beneventani. Poi, senza trovare risposta dall' artista del capello, ecco che il cliente prosegue: "Ma Pasquà qui c'è gente che muore a Lampedusa per scappare alla guerra, persone che si suicidano per la disoccupazione. Vorrei una tua opinione da profano: questo saluto è davvero una cosa grave?".

Pasquale non segue il Benevento, è chiaramente in difficoltà. Per dirla in termini calcistici, sta subendo un pressing asfissiante e l'unica cosa che può fare è gettare la palla in corner, o al meglio in fallo laterale: "Professò, guardate. E' il vostro giorno fortunato. E' appena arrivato un giornalista. Lui sa tutto, vi spiegherà i dettagli".

Faccio orecchie da mercante, tanto sono nell'altra stanza, leggo una rivista che non parla di calcio. Ascolto una canzone che non ha niente a che fare con il calcio e sono seduto accanto ad uno che ha l'aria di poter intendersi di tutto. Fuorchè di calcio.

"Francesco, ti va di spiegare al professore come sono andate le cose?". Eccola là. Tre giorni a ripetere i fatti, a scriverli, a commentarli e finalmente ad evitarli, che mi ci ritrovo di nuovo magicamente dentro.
"Buonasera professor...Morelli!?"

Anni che non lo vedevo. Era proprio lui, il mio prof di francese alle medie. Invecchiato di un po', devo dire, ma lo stile è sempre il solito. Beige prevalente su tutto, gusto discutibile nel vestire. Il prototipo del giornalista degli anni Ottanta. 

"Insomma, vuole sapere di Evacuo? Mi dica prima se si ricorda di me però..."

Qualche tentennamento. Sta tagliando i capelli, quindi mi osserva attraverso lo specchio.

 - "Francesco Carluccio. Bene, quanto tempo sarà passato? Quindici anni?"
 - "Qualcosa in meno prof. Qualcosina in meno..."

Ricordo che Morelli aveva la tessera di giornalista. E' a lui che l'ho vista per la prima volta. E devo proprio a lui la conoscenza dell'oggetto. Senza il suo corso pomeridiano di giornalismo - pressochè inutile, va detto - probabilmente avrei saputo della tessera cinque o sei anni dopo. Un dettaglio irrilevante, certo, ma pur sempre un dettaglio.

A quel punto si parla di Evacuo, ma poco, perchè nel mio pomeriggio libero non c'è spazio per il calcio. Glielo faccio presente e lui accetta di buon grado. Mi invita a prendere un caffè: "Vieni pure a casa mia, un giorno di questi. Abito al palazzo all'angolo. Parliamo un po' di tutto. Mi ha fatto immensamente piacere".

Paga e se ne va. Saluta pure Pasquale, a cui dice qualcosa sul mio conto. Doveva ricordarsi di me per forza, perchè avrò preso cinque o sei note di merito da parte sua. Il francese sarebbe stata la mia seconda lingua se solo mi fossi applicato. Evidentemente non l'ho fatto, pur avendo una predisposizione naturale ad apprenderlo.

D'altra parte lo dico sempre: "a cap è na sfogl e cipoll"
O meglio, "la tête est une feuille d'oignon"...

Frà

sabato 7 settembre 2013

Quattro chiacchiere con l'assassino





A 23 anni ho ragione di credere che l'amore sia solo un'invenzione di chi odia la matematica. Magari a trenta cambierò idea e a quaranta mi ricrederò totalmente, tutto dipenderà da che piega prenderanno le cose.
I matematici adorano la soddisfazione, l'adrenalina che segue la scoperta di un risultato. Un po' come gli scienziati, i geometri e gli architetti. Chi odia i numeri ama l'amore, ma non è detto che chi ama l'amore debba per forza di cose odiare i numeri. E' il frutto di un assioma contorto, di un'equazione diversa dalle altre perchè comprende al suo interno il sentimento.

Mettiamo che l'amore l'abbia inventato Dio, come umana consuetudine vuole e come divini scritti impongono di credere. Beh, non doveva avere una buona media al Liceo quello là. Chissà quanti corsi di recupero avrà fatto prima di diventare Dio. Chissà quanti esami ripetuti prima di sbandierare ai quattro venti la sudata laurea.

L'amore corrode, ti spacca dentro, rispecchia bugie facendole sembrare verità e ti tratta come un cretino. Ci sono casi in cui arriva quando avevi smesso di attenderlo, dandoti l'illusione di poter restare a lungo. Poi magari va via, ti lascia dapprima attonito, in seguito ti fa sorridere, infine ti strappa una promessa: "Ritornerò".

E ritornerà, sì che ritornerà. Ritornerà in altre persone, altre forme, altri sorrisi, altri atteggiamenti. Ti spalancherà le ante della finestra che affaccia sul mare mostrandoti l'infinito orizzonte. Ti farà sentire come la ginnasta che sapeva volare, Nadia Comaneci. Alle Olimpiadi di Montreal del '76 fu perfetta come nessuna era ne' sarebbe mai più stata. Dieci, dieci, dieci, dieci, dieci, dieci.  La giuria le diede sei volte dieci, ma in quel caso il dieci non era un numero. Era amore. E i numeri con l'amore non hanno niente in comune.

Frà

sabato 31 agosto 2013

Vi presento Ema



Questo ce l'avevo in testa da tre giorni, come un ritornello. E prima o poi questo ritornello andava scritto, altrimenti a cantarlo ci avrei fatto l'abitudine e a dimenticarlo ci avrei messo poco.

Emanuele ha lo sguardo serio, pronto a catturare ogni minimo dettaglio. L'aria è mediterranea ma tendente allo spagnolo. Non ho viaggiato moltissimo, ma lo definirei quasi un "italiano valenciano". I lineamenti non sono i miei, pur trattandosi di mio cugino.  E non è mio nemmeno il carattere. Il suo è silenzioso, calmo e paziente. Avrebbe una miriade di argomentazioni valide per esprimere un'opinione ma non lo fa. Chissà per quale assurdo motivo. 

A Positano, complice la pioggia che ha accompagnato i miei pochi giorni di vacanza, ho avuto modo di concentrarmi sui dettagli. Niente carta e niente penna, perchè ho optato per una "disintossicazione da taccuino". E perchè in certi casi non ce n'è bisogno in quanto viene tutto naturale. Mai una parola sopra le righe, mai un mugugno. Le dita sempre tra i denti, quasi a voler rovinare una perfezione fisica che a parer suo non gli si addice. L'orologio sempre al polso per monitorare il tempo che fugge via, soprattutto quando accanto hai un certo Francesco, trattato come un ospite speciale proveniente da non so quale set Hollywoodiano. 

Perchè in fin dei conti è così che mi fanno sentire Emanuele e suo fratello Riccardo. Un ragazzo felice e indispensabile. Credo che se trovi persone che ti capiscono, ti amano e ti apprezzano per come sei, nonostante i tuoi mille difetti, hai fatto bingo. Ecco, per loro sono perfetto nonostante la mia totale imperfezione. Un essere umano non potrebbe davvero desiderare di più. 

Emanuele, a dare una sbirciata al suo account Facebook, era un "personaggio" anche al Liceo dove lo definivano "Mister Aristotele" (dal nome del Liceo Scientifico). "Frà, una volta ho fatto un magheggio. Ho mandato un fotomontaggio ad un mio amico per prendere in giro una ragazza e lui, senza dirmi niente, lo ha messo su Facebook. Dopo un'ora la foto ha fatto il giro della scuola e il giorno successivo mi guardavano tutti. Mi sono sentito un pagliaccio". Questo mi ha confidato con una punta di imbarazzo. 

E' una persona timida, a tratti ansiosa, ma che sa il fatto suo. La vita è lunga e gli sorriderà facilmente, ne sono certo. Sull' Ipad di famiglia ha custodite le foto del suo passato, tra cui una con me a piazza San Pietro, risalente all'estate del Duemila. Io dieci anni, lui sei.  Io alto, lui basso. Ora è decisamente il contrario. Rivederla mi ha fatto uno strano effetto, tanto da volerla avere tutta per me sul pc di casa. 

Di tempo ne è passato davvero tanto da allora, ben tredici anni, ma la distanza sia temporale che fisica non ha sottratto energie ad un rapporto reso infinitamente più forte da ogni momento trascorso in compagnia.

Non è solo un onore avere accanto una persona così. E' soprattutto un dono. 

Frà.



sabato 27 luglio 2013

Un longobardo a Nocera Umbra


E' passato già tanto tempo da quella settimana di solitudine.
Era il mese di luglio dell'estate 2010, una delle meno difficili della mia interminabile giovinezza. Già, perchè a tre anni di distanza non ne voglio proprio sapere di diventare adulto, quindi mi diletto a tirare qualche ricordo fuori dal cilindro.
Oggi, aprendo il giornale, ho letto dell'exploit dell'Associazione Benevento Longobarda che dall'anno scorso si è caricata sulle spalle il peso di ravvivare la scarna estate sannita.
"Invitati a Nocera Umbra per insegnare ed illustrare l'importanza della scrittura longobarda", si legge sull'articolo di Ottopagine che ne commenta le gesta.

Tra di loro c'è anche un'amica di questo blog, Antonella, che non ha pensato per niente di avvisarci della sua partenza facendo qualcosa in piena coerenza con la sua personalità: zero proclami, tante azioni. Nella maggior parte dei casi buone, perchè è folle, pazza, ma buona come il pane.

Antonella è lì, in quello che nell'estate 2010 definii il "paese fantasma". Due supermercati, quattro bar, tre alberghetti e forse un B&B. Un paese nemico della connessione ad internet.
Ah sì, c'è anche un campo da calcio niente male ma che con il primo acquazzone diventa fanghiglia, oltre all'appuntamento annuale con un Palio ben diverso da quello di Siena. Un palio strano che attira nei primi di agosto un bel po' di gente, di vino e di competizione. Si scannano per una coppa manco se si stessero giocando un campionato mondiale di calcio. Ma sono felici, e questo è ciò che conta maggiormente. Per loro e per chi li osserva.

Nel millenovecentonovantasette il paesello - stilisticamente bellissimo, va detto - fu martoriato dal sisma che colpì l'Umbria e le Marche. Una brutta batosta per chiunque. Un duro colpo alla storia e alla tradizione oltre che ai ricordi dei più anziani. Spiegazioni difficili da trovare, testimoniate dalle crepe presenti sui palazzi. Con i nomi non ho mai avuto una certa dimistichezza, ma il proprietario dell'Hotel Flaminio risultò essere fin da subito una bravissima persona. Ero lì per seguire il Benevento, per la prima volta da giornalista. E poi lo sanno tutti ormai, il ritiro estivo mi ha sempre affascinato. Peccato che quest'anno sia saltato tutto, ma mi rifarò nelle prossime stagioni. Ora è tempo di soffrire, un giorno sarà periodo di raccolta.

Quell'esperienza mi catapultò per un attimo nel mondo dei grandi. Ero l'unico reporter al seguito e braccai la squadra per cinque giorni davvero intensi. Scrissi un diario, documentai tutto con filmati e fotografie.
Non dormivo. Scrivevo.
E facevo quello che sognavo fin da bambino, in totale relax e spensieratezza. Vissi una delle settimane più belle in assoluto, accarezzato dal vento umbro e dalla storia che si respirava lassù, tra un'aiuola ed un mattoncino medievale. Ricordo che la mia stanza affacciava su un bar. E che il bar aveva un jukebox. Canzone preferita dagli abitanti del posto: Alejandro, di Lady Gaga. Un supplizio. Alle 8, quando il bar apriva i battenti, mi svegliavo con quella musica. La riproponevano ininterrottamente tutto il giorno alternata a volte con il sempreverde Zucchero. E lì si viaggiava con la fantasia, perchè le colline all'orizzonte erano proprio quelle che descrive nelle sue canzoni.

Immagini varie nella mia mente. Ma vi rendete conto di cosa possa fare un banale  articolo?
A volte non so dirlo nemmeno io. Ci sono giorni in cui odio il mio lavoro e giorni in cui non potrei proprio farne a meno. Questo sabato appartiene alla seconda categoria, e me lo godo tutto. Fino all'ultimo attimo.

Frà

domenica 21 luglio 2013

Un anno in un giorno... (meno tre!)

Scrivere è l'unica cosa che conta.
Non so perché, ma la mente mi fotografa un'immagine. E' quella di un bimbo che tira con la manina la gonna della mamma per chiederle di comprargli le caramelle. Siamo a quei livelli lì. Datemi una tastiera, e io vi cambierò il mondo. E a quel punto sarà un po' come avere tra le mie grinfie quel pacco di caramelle. Un po' come passeggiare al centro di una strada deserta con la sola compagnia della "dea ispirazione". In piena asocialità. Io, la strada deserta e l'ispirazione. Visione fantastica per chiunque ama immaginare e buttare giù qualche rigo con passione.

Ma in realtà l'astrazione stavolta l'abbandono per una giusta causa. E quella giusta causa è l'esame di Filosofia Politica, sostenuto esattamente un anno dopo quello di Storia dell'Arte. Trecentossessantacinque giorni senza dare un esame; un record vero e proprio che ha seriamente rischiato di protrarsi.
Perchè riprendere a scalare la montagna dopo essersi fermati bruscamente non è mai facile. Ci vuole una forza diversa da quella comune e forse non basta la forza di un solo uomo. Ci vuole il sostegno della gente, roba tipo i cori da stadio, gli incitamenti, gli striscioni. E su quella salita che sto ancora percorrendo di striscioni ne ho trovati tanti. Mi dicevano di non mollare, di cambiare rapporto e di avvicinarmi al traguardo. C'era e c'è scritto tuttora che lassù magari non c'è una bella veduta ma c'è qualcosa simile alla soddisfazione. Alla felicità. E in fondo viviamo anche di questo, no? Di traguardi da tagliare e sorrisi da mettere in mostra.

Sulla mia strada vecchi e nuovi amici, ma anche un pedone come tanti. Il signor Italo, disgraziatamente investito ai primi di maggio con una manovra maldestra nello stesso giorno in cui la sempreverde Simona mi aveva prestato i suoi appunti per l'esame. Eleonora e company lo definirebbero un segno del destino. E stavolta, vi dirò, voglio crederci. Perché Italo si alza, ci guarda e decide -  dopo una decina di minuti  - di lasciare tutto come sta. Dice che non si è fatto niente e che non c'è bisogno dell'ospedale. Non finirò mai di ringraziarlo nonostante si fosse buttato al centro della corsia così, senza leggere ne' scrivere.

Simona ed Eleonora, dicevo, ma ci sono stati anche Gildo, Ivan e tanti altri in questo tortuoso avvicinamento all'esame. Un esame che non va festeggiato, lo preciso, perché ho fatto solo quello che avrei dovuto fare un anno fa, ma che pone lo striscione del traguardo un tantino più vicino mentre io resto in sella. Accanto ai soliti sorrisi contagiosi e alla voglia di non pensare a niente. Ora è tutta una questione di nervi.

Amici, un giorno non troppo lontano vi porterò sul podio. E ci terremo tutti per mano...

FRANCIO

lunedì 1 luglio 2013

Fuori dal tempo






4 Marzo (1943).

Osservi le sue movenze e parte in sottofondo. La voce di un giovane Dalla, il suono del violino e l'immagine di un passato in bianco e nero dal quale sembra venuta fuori. Perchè lei, ne sono certo, arriva proprio da lì. Ha l'aria di essere uscita da un film di Fellini, quelli degli anni Sessanta. Il suo modo di porsi è aldilà di ogni logica e concezione.
E' fuori dal tempo.
Porta una gonna che poche indosserebbero ma che abbinata ad un sorriso perfetto, candido e sincero, la rende un capolavoro. Quel sorriso non lo dimentichi facilmente. Può distruggerti il cuore e rimetterlo a posto in venti miseri secondi. Prima ti affossa, poi ti porta sulla luna. Il biglietto è di andata e ritorno, purtroppo, perchè lei è fatta così.  Mette allegria anche ad un cimitero.
Ha uno stereo che sembra un giradischi e al dito un anello rosso che pare un fiocco ma è in realtà uno zircone. Un diamante dal valore inestimabile.
Gli occhi di perla trasmettono dolcezza ed ispirano riflessioni lunghe mesi, magari anni. Sono certo di aver visto la sua sagoma su un palazzo di Madrid ma anche nella metro di Valencia. In realtà, ma questa è pura follia, mi sorge il dubbio che non l'avessi già sognata prima ancora di conoscerla.
Rientra tutto nella logica illogica di un rapporto mai definito che diviene infinito. Perchè con una così non finisci mai nè di stupirti nè di sentirti migliore. E' una di quelle che esistono, vivono, e per fortuna ti vogliono anche un bene immenso.
Quando sono giù di morale, faccio a cazzotti con la vita e non capisco più niente di ciò che mi gira intorno, corro da lei.

Indosso gli occhiali, macino chilometri, piango, rido, impazzisco,
ma poi le tendo la mano, lei mi tende la sua e usciamo insieme un po' fuori.
Fuori dal tempo. 

Frà


sabato 22 giugno 2013

Quello che non trovate sui libri




Una conchiglia che sussurra modernità, questa è Valencia. Intanto il vento che l'abbraccia ti accarezza la pelle, allontana i pensieri e scatena suggestione.

Ci sono sei delfini, di cui non conosco il nome. Ammaliano una folla colma di gioventù, mentre un leone marino trasmette il senso di umanità sconosciuto all'umanità stessa.

Nella vita non si finisce mai di imparare, ma certe cose sui libri non ci sono scritte. Comprate una qualunque guida turistica, sfogliatene le pagine, poi gettatela pure via. Il profumo della carta e della stampa potrà anche piacervi ma non riuscirà mai a pareggiare ciò che vedrete con gli occhi. Ciò che bagnerà i vostri capelli, prenderà le vostre mani e bacerà le vostre guance.

La vita non è teoria. Non solo, almeno. E' soprattutto pratica. Ti capita di pensarlo quando all'interno del Mestalla -  lo stadio di Valencia - fai un respiro profondo ed assapori la storia. Non la storia del calcio, altrimenti sarebbe banalità pura. Mi riferisco ad una cultura, ad una fede che va aldilà della palla rotolante. La signora incaricata a condurci nella pancia di uno dei tempi del calcio europeo ha gli occhi lucidi quando gli chiedo del futuro della squadra locale: "Lo stadio è sempre pieno, ma siamo sommersi dai debiti. Il Valencia sta soffrendo tanto, ha le tasche vuote. Consoliamoci con il passato...".

Capita spesso che ci si consoli con il passato. E' un ritornello noto a tutti. Io sono il primo a cantarlo con tutti quei ricordi spruzzati qua e là all'interno del mio blog. Una cosa è certa: entrare ed uscire dal Mestalla, parlare con quella donna, mi ha fatto sentire una persona nuova, lo ammetto. Eppure nè io nè il mio migliore amico le abbiamo chiesto come si chiamasse. Forse ci ho anche pensato, ad un certo punto della visita, ma ho lasciato correre. E' giusto che in certi casi, proprio come nelle leggende, le persone che incrociano il tuo cammino non debbano avere un nome, ma solo un volto che rimanga impresso nella mente insieme al suo ricordo.

E' quello che più o meno è successo in centro, quando un simpatico cameriere portoghese ci ha spiegato come andassero le cose da quelle parti davanti ad un piatto di Paella: "Volete sapere dov'è la movida? Ve lo spiego subito. Proseguite per duecento metri, poi girate a destra, troverete un vicolo. Al termine del vicolo svoltate a sinistra e poi nuovamente a destra. Poi continuate dritto per cinquecento metri e troverete un altro vicolo che vi condurrà a Plaza de la Virgin, nel Barrio del Carmen. Lì c'è tutto quello che cercate. Non è lontano.".

Ovviamente ci perdemmo.

Quella sera, a cena, accanto a noi c'era un gruppo di inglesi di età avanzata. Tre di Nottingham ed una di Manchester. Il leader carismatico dei quattro era un tifoso del Brighton, la persona giusta con cui abbozzare un discorso sul calcio. La donna di Manchester mi stupì intervenendo all'improvviso: "Did you stay in England, guy? Your English is perfect!" (Sì, vabbè, e tu sei Queen Elizabeth...).
Poi vidi sul loro tavolo il boccale di Sangria. Era vuoto, non era rimasta neanche una goccia. E tutto a quel punto mi fu chiarissimo...

Nella foto, lo chef Francio. A sinistra il braccio di uno dei quattro inglesi. 

See you soon!

giovedì 13 giugno 2013

Il mio primo appuntamento



Ben ritrovata gente di Camera con Vista!

Se siete ancora sintonizzati sulle mie frequenze ve ne sono immensamente grato. Ho trascurato il blog per un po' ma non l'ho fatto di proposito. E' tutta una questione di esposizione. Non so perché, ma ultimamente mi riesce difficile buttare giù qualcosa nonostante le idee fiocchino come neve. Dal 27 aprile, giorno del mio ultimo intervento, me ne sono successe talmente tante che potrei scriverci un romanzo ma il problema è che non saprei da dove cominciare. Ecco perché ho preso la decisione di non iniziare affatto: niente di niente. Si fa un bel salto di un mese e mezzo e ci si proietta direttamente a ieri pomeriggio, quando in giardino mi sono trovato davanti un libro che non vedevo da anni: "Le avventure di Tom Sawyer".

Quanti di voi lo conoscono? Il nome vi dice qualcosa? Non importa. Il libro in sè non mi interessa, mi interessa più che altro ciò che ha rappresentato. Era tutto impolverato, doveva essere rimasto nel gabbiotto prima che iniziassero i lavori per risistemare il retro della casa. Nel prendere qualche attrezzo i miei zii lo avranno tirato fuori esponendolo involontariamente alle grinfie di Nando che di solito mangia di tutto. Rischio altissimo ma stavolta curiosamente il cane ha lasciato in pace l'oggetto e non posso che ringraziarlo.

Arrivo al punto: volendo giocare un po' con le parole come amo spesso fare, potrei definire Tom Sawyer il mio "tom tom". Il mio navigatore alla scoperta del mondo della "parola". L'edizione che ho appena ritrovato è quella per bambini ed è stata stampata nel 1990, il mio anno di nascita. Ho ricordi nitidi di quel libro, ma non della trama. Il perché è semplice: è stato il primo libro che ho letto, riletto e riletto ancora con lo scopo di imparare come si facesse. Era la primavera del 1996 quando avevo appena finito l'ultimo anno di asilo e mamma chiese a mia cugina - che ha cinque anni più di me  - il favore di insegnarmi a leggere. Le intuizioni di mia madre sono sempre state geniali. Ha sempre voluto che avessi una marcia in più in tutto e ancora oggi non mi spiego perché non mia abbia fatto fare la primina. Voleva che imparassi a leggere in anticipo per capire meglio le dinamiche del nuovo mondo con cui mi sarei trovato a che fare. E in effetti aveva ragione. Grazie a quel cambio di marcia, a mia cugina e alle mattinate primaverili ed estive di quel '96 in cui sacrificai le macchinine per "Tom", imparai ciò che i miei futuri compagni di scuola avrebbero appreso in mesi e mesi di pratica.

La cosa mi prese fin da subito, non so esattamente perché.  Forse per il mio amore eterno verso le sfide, Forse perchè non vedevo l'ora di sfogliare i libri che c'erano sullo scaffale senza soffermarmi sulle figure. O forse ce l'avevo nel sangue già da bambino, chissà. Magari adesso avessi quell'intraprendenza anche nello studio dei testi universitari! Se fossi come il "Francesco bambino", avrei la strada spianata quotidianamente, ne sono certo!

Faccio un attimo il romantico. Quello con Tom Sawyer lo definisco il mio "primo appuntamento". Il primo impatto con un mondo, il "mondo delle parole", che mi ha sempre affascinato. Certo, sapevo già parlare bene a sei anni compiuti, ma imparare a leggere è un'altra cosa. Si apprende ciò che è impresso sulla carta, sui muri, ovunque...

Ancora oggi vorrei imparare ogni giorno nuove parole ma la difficoltà resta quella di sempre: saperle usare in base al contesto. A volte bisogna essere scaltri nel capire con chi si ha a che fare per evitare che ti scambino per quello che non sei. Altre, invece, devi furbescamente mostrarti proprio per quello che non sei per evitare di mettere a disagio il tuo interlocutore. Raramente ci riesco, perché alla fine scelgo di essere me stesso. Potrei definirla "deformazione professionale" ma non escludo che si tratti della "sindrome di Tom". In fondo fingere non fa mai bene, l'ho sempre detto!

Passo e chiudo. Il libro ha bisogno di una rispolverata...



Francio







sabato 27 aprile 2013

L'importanza di essere numeri uno




C'è un romanzo di Paolo Giordano che regalai a mia cugina Floriana lo scorso Natale. Uno di quelli che hanno sbarcato il lunario, ma non sono sicuro che lei lo abbia iniziato a leggere. Anzi, forse non lo ha mai neanche aperto per sfogliarne le pagine. Sta di fatto che è stato proprio quel romanzo a fornirmi l'assist per il titolo di questo intervento. Perché se i numeri primi soffrono di solitudine, i numeri uno soffrono altrettanto di importanza.

Ora vi starete chiedendo come diamine si può "soffrire di importanza". Beh, la risposta non la so, ma so per certo che si può.

Tutto questo per dirvi che oggi voglio trasgredire, liberarmi dall'ipocrisia, farmi scivolare addosso le critiche. Troppe volte sono stato severo con me stesso perché ho utilizzato un termine di paragone decisamente complesso. Ho messo a confronto la mia personalità con la personalità perfetta, uscendone logicamente sempre sconfitto. Ma è lì che sbagliavo. Perché i numeri uno non sono i perfetti, quelli che non sbagliano mai. I numeri uno sono le persone che emergono all'interno di una cerchia più o meno vasta.

Prendiamo due mostri della pittura, ad esempio: Vincent Van Gogh e Pablo Picasso. Io non sono un esperto, mi limito ad osservare i quadri andando oltre con la mia fantasia. Non ho mai pensato di interpretare un quadro di questi due secondo i loro dettami, ma secondo i miei, e non credo sia un limite a dispetto di quanto vogliano far credere i critici.

Van Gogh e Picasso sono entrambi dei numeri uno. Hanno vissuto in età leggermente differenti, ma se pure fossero stati coetanei sarebbero entrambi saliti sul gradino più alto del podio nel loro genere. Non perché fossero perfetti, ma perché emergevano. Perché avevano qualcosa che altri sognavano di avere. Chiamatelo "quid", chiamatelo "valore aggiunto", chiamatelo "dono". In ogni caso avevano una marcia in più.

Questi sono i numeri uno, e ci ho messo davvero tanto a capirlo che quasi me ne vergogno. Ho trascorso tempo ad inserire in questa categoria persone che non ne facevano parte, ma è stato un errore mio di cui mi assumo le responsabilità. Nella vita si può sbagliare, si può cadere. L'importante è rendersene conto e trovare la forza di rialzarsi.

Giusto sette giorni fa ho vissuto la gioia sportiva più grande della mia vita. E la cosa buffa è che di mezzo non ci fosse un pallone rotolante su un prato verde. C'era la pallamano. Mi sono reso conto di essere partecipe in prima persona dell'impresa quando a tre giornate dalla fine del campionato ho visto piangere delle persone per quello che avevo scritto qualche ora prima. E' stata una sensazione stranissima e non per i complimenti ma per il coinvolgimento emotivo. Non credevo che le mie parole potessero fare questo. Non mi davo tutta questa capacità.

Poi ho parlato con altre persone, che mi seguono assiduamente nel pensare e nello scrivere ed ho capito che forse un principio di verità in quei complimenti c'era. Ho sentito o letto le voci di Mabel, Simona, Sara, Vanessa, Eleonora, Massimo, Gildo, Giulia, Carlo, Manuel e Alessio. Le ho sentite forti nelle orecchie ma soprattutto nel cuore. Erano sincere.

Ho metabolizzato tardi ma finalmente capito che dovevo finirla di mettermi alla stregua di chi non mi ha mai apprezzato a fondo. Di stare dietro ai numeri due, tre, quattro, cinque. Un giorno forse diverranno anche loro numeri uno per qualche persona o per qualche titolo acquisito, ma per il momento non mi fanno compagnia in questo traffico di numeri uno.

Chi mi conosce sa che raramente mi attribuisco meriti. Sono permaloso, questo sì, ma non pecco di presunzione. Stamattina -  in questo grigio sabato mattina -  mi andava di urlare a me stesso che non sono secondo a nessuno. Pure la mia faccia, vista allo specchio, sembra meno stanca del solito nonostante il consueto mal di testa post-venerdì.

Proprio quello sguardo perso nel sonno mi ha spronato a scrivere qualcosa di diverso, di più incisivo. Di più diretto. Ne è uscita una sorta di autocelebrazione forse antipatica, scomoda e sgradevole che mi ha portato a paragonarmi a mostri della pittura. La differenza è che loro avevano e continuano ad avere una cerchia di seguaci immensa, io molto più concentrata ma non per questo meno importante.

Le cose sentite sono sempre le più belle, perché sono vere e sincere.

Perché sono da numeri uno. E io, Francesco Carluccio, sono un numero uno.

FRANCIO

mercoledì 27 marzo 2013

Un incontro fuori dal tempo.




Lei camminava a testa alta, con lo sguardo dolce e fiero, proseguendo per la sua strada su uno dei tanti marciapiedi storici di Benevento. Io avevo appena parcheggiato la mia automobile in divieto di sosta, fiero a mia volta di aver trovato un parcheggio che fosse ad un tiro di schioppo dalla redazione. Tanto lì i vigili non sono mai passati a controllare.

I miei occhi l'avevano inquadrata già nel momento in cui le mani erano intente a tirare su il freno a mano. I suoi occhi, invece, mi hanno scrutato pochi secondi dopo. Il tempo di uscire dall'auto e sentire quel brivido che tre, al massimo quattro persone hanno saputo regalarmi finora. Una di queste è Carmen Amelio.

Non mi sono mai chiesto quanti anni avesse quando vestivo il grembiule azzurro, quindi non me lo chiedo neanche adesso. Quelle come lei sono donne senza età. Vivono sospese al centro di un vorticoso valzer di piroette che solo il tempo sa regalare. Bene, lei con il tempo ci scherza, ed è una delle poche a riuscirci. In fondo si sa, il tempo è galantuomo e gli uomini galanti raramente abbozzano una risata.

Mentre penso al "chissà se si ricorda di me", le sue immense labbra si muovono:

 <<Francesco!>>.

Un nome risuona in via Giuseppe Pasquali, ed è il mio. "Maestra, professoressa, signora? E ora come la chiamo?", penso tra me e me alquanto imbarazzato. Intanto faccio partire un sorriso costruito.

"Non ci posso credere, si ricorda di me..." - continuo a pensare. Alla fine opto per un generico <<Buonasera>>, che non fa mai male.
Non mi andava di classificarla con titoli scolastici o professionali. Mi sarebbe venuto più naturale chiamarla mamma, lo confesso. Nessuna persona è mai più riuscita a farmi imparare una poesia a memoria, nessuna che sia mai stata così determinante nello stimolare la mia voglia di apprendere. Nessuna donna è stata mai così capace di incutermi timore e simpatia allo stesso tempo.

Insomma, era lì, davanti a me: Carmen Amelio. La "maestra Carmen", per gli amici. Insegnava italiano alle mie amate scuole elementari, quando cercava di indirizzarci prima a vivere e poi a capire la grammatica. In fin dei conti le due cose sono abbastanza simili, con un po' di fantasia. E lei riusciva benissimo a coniugarle come verbi.

Oggi, in via Pasquali, aveva la solita luce negli occhi e il solito profumo sulla pelle. Non voleva mollarmi più ma quel che diceva era interessante e coinvolgente. Capelli rossi, labbra carnose, viso giovane ed eleganza unica al mondo. Al collo un foulard attorcigliato in modo particolare. Solo una persona che conosco lo indossa così, ma questo è un dettaglio che credo interessi a pochi.

<<Allora Francesco, della tua vita cosa ne stai facendo?>>

Beh, cosa ne sto facendo. Forse la sto buttando via in chiacchiere. 
Questo è ciò che avrei risposto. E invece...

<<Eh, cosa dire. La redazione di Ottopagine è lì dietro, oltre quei palazzi, vicino la chiesa. Collaboro per l'edizione sportiva online. Nel frattempo manca poco alla laurea in Scienze della Comunicazione, ma non so davvero dove sarò tra qualche anno.>> 

Bugia. Mancano quattro esami, e considerando la mia testa non sono pochi. Ma dovevo sbrigarmela in qualche modo.

<<Come dici? Sei un giornalista sportivo e la laurea è vicina? Chissà quanto sarà contenta tua madre. Che donna eccezionale, salutamela affettuosamente..>>

Il discorso è iniziato così ma è poi andato avanti a lungo, credo almeno venti minuti. Abbiamo affrontato moltissimi temi e non nascondo che gli occhi erano lucidi come nelle occasioni importanti.
Eravamo io, lei, il suo foulard e la passione per la lingua italiana che non ha mai smesso di trasmettermi. Quando ho avuto dubbi su me stesso, sulle mie ambizioni, ho pensato spesso alle sue lezioni e mi sono tirato su. Penso a tutti quei bambini (o meglio, ragazzi. Oggi si cresce troppo in fretta...) che hanno l'onore di averla davanti ancora. E a cosa si sia perso chi non l'ha mai conosciuta.

<<Con il cuore di una mamma ti auguro tutto il bene del mondo. E mi raccomando. Non dimenticarti mai delle cose semplici: sono loro a fare la differenza>>.

Poi è sparita, come in un film, indirizzando il suo vagare verso Corso Garibaldi.
Io intanto ero lì impietrito ad osservare un altro corso, quello degli eventi.
"Anche questa è storia", mi sono detto. Ho incontrato la mia musa ispiratrice nel momento di massimo bisogno. E le cose, ne sono certo, non accadono mai per caso.

FRANCIO.


 - Nota a margine -
Carmen e Carmela sono due nomi che si somigliano molto. Ho una cugina che si chiama allo stesso modo della maestra ed una zia che invece ha il nome "italiano" e a cui dedico questo intervento. Poi c'è un'altra Carmela, precisamente Carmela Tripaldi.
Come dite? Volete sapere chi è? In realtà non lo so neanche io, e non so nemmeno se esiste. Fatto sta che mio cugino Riccardo, il romano, dice che è la mia fidanzata...

Tranquilli voi e tranquillo Riccardo, sono ancora single. Questo affare non lo fa nessuno.





lunedì 25 marzo 2013

Lo scienziato e il seminarista - coffee break





Strana bevanda, il caffè. E'capace di aprirti un mondo.
Ho confidato a qualche amico che non programmo mai gli interventi da scrivere su "Camera con Vista". Sono frutto dell'estemporaneità del momento, dell'unicità di ogni mattina, pomeriggio, sera o notte all'apparenza monotona. Credo infatti che sia solo apparenza. Mi piace pensare che ogni istante vissuto abbia qualcosa di diverso rispetto a quello già affrontato e a quello che è alle porte. Immagino che a molti sia capitato di pensare: "che vitaccia, faccio sempre la stessa cosa...". Beh, in realtà la stessa cosa non la facciamo mai. Magari ripetiamo un'azione, ma la faremo sempre in modo diverso, con umore diverso, sorriso diverso e pensiero diverso. Basta ragionarci un po'.

E lo avrete capito, ormai. Ragionare è una delle cose che amo di più. Non sulla matematica, sui numeri, sulla scienza, è chiaro. Mi piace ragionare sulle imperfezioni perché penso che niente sia perfetto e niente potrà mai esserlo. Non mi piacciono i problemi con una sola soluzione e non mi piacciono le strade con una sola via d'uscita. Perfino da piccolo, alle elementari, quando in Geografia mi interrogavano sui fiumi, sulle foci a delta o a estuario, quando nominavamo le seconde storcevo il naso. Un fiume che termina nel mare seguendo un unico percorso mi ricordava tanto la mancanza di variabilità, di estro e fantasia. Più sbocchi, invece, più fantasia, più apertura. E' questo ciò che ho sempre predicato ma non sempre razzolato. Perché non nascondo che a volte mi riesce difficile essere coerente con me stesso. E' un limite, ma spero di farne presto una forza.

A qualche amico - lo stesso a cui ho confidato che non programmo gli interventi che vedete qui sopra - ho bisbigliato anche che per la prima volta da quando ho aperto il blog mi era venuto in mente di progettarne uno ad hoc. E come al solito, quando progetto qualcosa, sono un pochettino goffo. Ecco perché ho scritto e cancellato per ben tre volte un intervento, negli ultimi giorni. Ogni volta che ci provavo, scrivevo le stesse cose ma in modo diverso, collegandomi al discorso che facevo prima. In più - grave problema - ogni volta mi bloccavo. Il mio obiettivo, comunque, era parlarvi della diversità che magicamente diventa somiglianza.

In questi giorni, chi ha avuto modo di accendere la tivù avrà notato che si è parlato tanto di razzismo, di intolleranza, di discriminazione legata al colore della pelle. Siamo nel 2013 e queste cose ancora esistono. Assurdo. Io invece voglio affrontare un altro tipo di divergenza, quella legata alle ambizioni.
Ho due amici a cui sono molto legato che potrebbero essere agli antipodi ma che finiscono per somigliarsi come gemelli. Uno fa il seminarista e sogna il sacerdozio, l'altra studia una di quelle che definisco "scienze esatte" e ha l'ambizione di fare la ricercatrice.

Due bei sogni, innanzitutto. Perché è giusto chiarire che non è da tutti puntare così in alto e loro non si accontentano. Non sono fans del "Chi si accontenta gode", ma della rivisitazione made in Ligabue, che a quella frase scontata e banale ha aggiunto un bel "così così..." . Quindi ottima scelta, Gildo ed Eleonora. Avevate l'opportunità di accontentarvi, non lo avete fatto e sento che non lo farete mai.

Detto questo e chiusa la piccola parentesi sul "così così", la cosa che mi ha stupito maggiormente è la somiglianza nel modo di fare. La diatriba dialettica (e non solo) è lunga secoli, millenni e si perde nei volumi impolverati su cui è scritta la storia dell'umanità: "Scienza contro Religione".

Eleonora non crede in un Dio superiore e non avrebbe modo di andare d'accordo con Gildo. Pare poco, ma invece è tantissimo, più di quanto si possa immaginare. Gildo è schematico, pur essendo prevalentemente irrazionale. Eleonora non è schematica ma razionale. Entrambi hanno le loro visioni. Gildo vuole migliorare un ambiente ancorato a  troppi dogmi e convenzioni ormai in disuso e a mio parere, con la mano di qualcuno che la pensa come lui, ci riuscirebbe anche. Eleonora delle certezze vuol fare una professione e delle incertezze un diletto.

Crede nel destino, Eleonora. Non ci crede minimamente Gildo, che non vede alcun disegno, alcun diagramma, alcuna via che non sia quella che ci costruiamo ogni giorno. Un po' filosofo un po' previdente lui. Molto profonda e altrettanto cauta lei. Sono due gocce d'acqua in un oceano di vino (scritto staccato, non "divino". Prendete nota). Non ammetteranno mai di avere qualcosa in comune ma i miei occhi ne vedono tantissime, una su tutte, a dire il vero.
Entrambi credono nel sottoscritto in maniera illimitata e probabilmente senza un motivo.
Stolti, temerari e sognatori. Oltre che coraggiosi. E poi molto zuccherati, proprio come il caffè che ho appena finito di sorseggiare.


FRANCIO



sabato 23 febbraio 2013

"Saturday Night Fever"



Trentasette e quattro. Non è granchè, ma dà un fastidio enorme, quasi come un calcio nelle parti basse.
In realtà non ho molto da scrivere, ma mi allettava il titolo: "La febbre del sabato sera". Da quando nella mia vita i week end hanno un senso, credo che sia la prima volta che una febbraccia mi tenga fermo ai box nel giorno della settimana più atteso.
In tivù poi davano Palermo-Genoa. Zero a zero, partita bruttissima, di quelle che ti fanno odiare il calcio. Su Italia 1 Asterix alle Olimpiadi non era certamente inserito nella lista dei miei film preferiti... Allora eccomi a scrivere due cazzate su "Camera", come avviene spesso ultimamente.
E la novità è che non so davvero cosa scrivere. Ah sì, una cosa da dire ce l'ho. Tra qualche ora si vota ragazzi. Non facciamo scherzi, entriamo in quella cabina e mettiamoci la testa. Facciamo agire il cervello.
Io spero di provvedere entro lunedì. Spero anche di uscire da questa prigione perchè non ce la faccio più, ma spero anche che quando sarò finalmente guarito, alla guida del mio Paese ci sia qualcuno con la testa sulle spalle.

Intanto buon sabato sera a voi. Quando scrivo sono appena le 23. Insomma, c'è tempo. Avete ancora tanto da dare alla notte...

Francio

giovedì 21 febbraio 2013

Tra febbre, insonnia e realtà




L'influenza, l'insonnia, e quelle notti che sembrano infinite. Vorrei tornare a viverle con i miei amici, piuttosto che a letto. Sembra che dormi per dieci ore ma ti svegli e sono ancora le due. Poi ti riaddormenti, passa un'altra infinità di tempo, ti risvegli e sono le 3.30.
Proprio per questo non so dire con precisione se il pensiero che mi è passato in mente la scorsa notte sia frutto di un sogno o di un ragionamento poco lucido, mentre sudavo nel letto a causa della temperatura che saliva costante. 
Pensavo, manco a  dirlo, a Carmelo.  Non faccio retorica, ma sono fermamente convinto che quello che è avvenuto lo scorso week end mi abbia trascinato addosso la febbre più di qualsiasi colpo di freddo. Insomma, ha abolito le mie difese immunitarie. Ma del resto l'ho già scritto: troppe emozioni forti. Capita che collassi e non ce la fai più.
Tornando al sogno (o ragionamento, come preferite), è tutto molto strano. Ed è strano anche che sia ancora qui, nella mia mente. Forse è giusto scriverlo, scusandomi innanzitutto per il mio essere ripetitivo.
Pensavo alla nostra vita come ad una partita. La vita media di un essere umano si avvicina ai novant'anni, anche se purtroppo a volte si ferma sfacciatamente prima. Novanta sono anche i minuti di un incontro di calcio. Facciamo così - mi sono detto. Un anno, un minuto. Da giocare con la solita intensità di chi vuole portare a casa il risultato. Niente intervalli, niente tempo di recupero, a meno che qualcuno lassù non alzi il tabellone luminoso. 
L'obiettvo è quello di fare gol, come al solito. In che modo? Beh, ognuno di noi ha la sua maniera di fare gol, a seconda dei traguardi che si propone. Bisogna lottare, insomma. Lottare, lottare, lottare. 
E' qui, in questo preciso istante, che mi è venuto in mente Carmelo. Il suo viso, la sua faccia, il suo modo di camminare, di correre e di porsi. 
Aveva appena giocato trentasette minuti, lui, ma quanti gol aveva già fatto. Esordio in serie A da giovanissimo nel Napoli con la maglia numero 10 di Maradona. Una vita per la sua squadra, il Benevento, che era riuscito anche ad allenare con successo. Due figli, tanta umanità, tanti amici. Una famiglia ed un popolo che gli sono stati accanto fino all'ultimo istante  stringendosi attorno a lui solo come si fa con i grandi uomini.
E voi sapete cos'è un contropiede? Un contropiede è l'azione più beffarda che esista nel calcio. Stai attaccando nella metà campo avversaria, sbagli un passaggio e l'altra squadra ti prende alla sprovvista, approfitta del fatto che sei sbilanciato ed in velocità si lancia verso la tua porta. 
E' una situazione che solitamente si verifica quando cerchi a tutti i costi di fare gol e ti proietti totalmente in zona offensiva. E' questo il punto. Lui al trentasettesimo era lì ad attaccare, nonostante fosse in vantaggio quattro a zero. Poi qualcuno ha rubato palla sulla tre quarti difensiva e con tre passaggi è andato a fargli gol. Un gol pesante, che non cancellerà mai quanto di buono il Capitano ha prodotto in una vita breve ma intensa come poche. Da allenatore, lui, non avrebbe mai tollerato di prender gol così. Da suo grande tifoso sto ancora aspettando che il guardalinee sbandieri un fuorigioco e l'arbitro annulli tutto. Niente da fare. Purtroppo, tutto regolare.

La foto è di qualche tempo fa...

Francio

lunedì 18 febbraio 2013

Pugni nello stomaco



Non ricordo di aver provato tante emozioni così discordanti e continue come quelle degli ultimi cinque giorni. Non ricordo, per lo meno, che sia accaduto nel corso dell'ultimo anno.

Lasciando perdere i fatti (alcuni noti a tutti, altri solo a me), ciò che  giusto e indescrivibile allo stesso tempo è il turbinio di sensazioni che hanno generato. Quello che hanno scatenato nel mio stomaco letteralmente scombussolato. E stavolta il Mc Donald's non c'entra niente.

Dico la verità. Dopo tutte le esperienze vissute sulla pelle a livello emotivo mi sono convinto che le emozioni non vadano classificate in "piacevoli" e "sgradevoli". La giusta classificazione è tra emozioni profonde ed emozioni superficiali. Tra quelle che senti dentro come un pugno nello stomaco e quelle che invece ti sfiorano il cuore come una carezza. 

Ecco, negli ultimi giorni ho preso solo pugni allo stomaco, ma non tutti hanno fatto male lasciando lividi sui miei fiacchi addominali. Devo dire che ho pianto tanto, e che ho implorato altrettanto qualcuno che oltre le nuvole sicuramente esiste, ma che ogni tanto si distrae come un arbitro che fa finta di non vedere un fallo di mano.

Magari anche lassù hanno Facebook, Twitter o Ruzzle. Magari anche lì pensano alle banalità come spesso faccio io e si dimenticano delle cose importanti. Di persone che sulla Terra soffrono, lottano, si danno da fare per obiettivi massimi o minimi che siano. Che ci mettono il cuore e che non vengono ricompensati. 

Sarebbe assurdo, ora, definirmi non credente. Sto seguendo il corso di Cresima, mi sono preso la responsabilità di tramandare il Sacramento ad un amico. Escludo categoricamente di non credere, ma ci sono episodi che fanno riflettere, che non riesco proprio a spiegarmi. E certi giorni è dura, soprattutto quando i pugni nello stomaco si moltiplicano e da due diventano quattro, otto, sedici.

La vita è questa. A volte è giusto non porsi domande e continuare per la propria strada a testa alta. Provare a guardare oltre l'orizzonte anche se piove, tira vento e c'è un freddo cane. Non è facile, ma bisogna farlo. Lo si deve a chi ha combattuto con la propria vita ed  uscito sconfitto. Lo si deve a chi crede ancora che cambiare le cose, sovvertire i pronostici, sia comunque possibile. 
Nonostante tutto.

FRANCIO



venerdì 15 febbraio 2013

Il contropiede della vita




Quando squilla il telefono alle luci dell'alba e sul display appare il numero di Antonio, il segnale non è mai positivo.
Negli ultimi tre anni è successo diverse volte. E' accaduto anche stavolta e spero non accada più perchè ne ho sinceramente le scatole piene. Ho sempre odiato i "coccodrilli" perchè li ritengo inutili ma in qualche modo devo sfogarmi in questa strana mattina di febbraio che fa seguito ad un San Valentino vuoto di spunti, di riflessioni sane e soprattutto positive.

Per chi non lo sapesse, il "coccodrillo", in gergo, è l'articolo che si butta giù dopo la morte di una persona con lo scopo di celebrarne le gesta e ricordare quanto di buono fatto in vita. Non tutti conoscevano ed hanno avuto il piacere di parlare con Carmelo Imbriani almeno una volta ma vi assicuro che non servivano le parole. Quello che aveva da dire lo esprimeva con lo sguardo. Specchio fedele di un'anima saggia e combattiva.

Non sto qui a celebrarlo perchè i fatti parlano da soli. Capitano della mia squadra del cuore, simbolo sportivo della mia città. Allenatore promettente, prima che la malattia lo colpisse e lo mandasse in trasferta prima a Perugia a combattere da leone, poi in paradiso. A troppi chilometri di distanza.

In piena coerenza con quello che è lo spirito di Camera con Vista, preferisco parlare di cosa mi hanno insegnato lui ed il suo dramma. E non è poco. 
Carmelo ha visto iniziare il suo calvario nell'agosto scorso a causa di una malattia rara definita "linfoma di Hodgkin" che da perfetto ignorante mi sono anche permesso di cercare su Wikipedia. E' qualcosa di brutale, di veramente terribile. Ed è meglio non entrare nel merito.

L'ultima volta che l'ho sentito al telefono per un'intervista era il 26 luglio e la sua voce preoccupava abbastanza da allarmarsi. Colpa di una bronchite, dicevano. Ma poche ore dopo avrebbe lasciato il ritiro aprendo il campo a diverse ipotesi che purtroppo si sono realizzate. Ai primi di agosto sapevo già tutto. Sapevo che non era una cosa semplice, da quattro spiccioli. E la mia reazione la disse lunga.
A dire il vero i miei comportamenti di quei giorni furono ambigui, anche se per una delle rare volte nella mia esistenza non lo diedi a vedere. Perchè la vita è così. Un giorno hai tutto, l'altro niente. E pensare a Carmelo in quelle condizioni mi faceva male ma allo stesso tempo mi dava il coraggio nel fare gesti che prima non avrei fatto. Sembrava che mi dicessi: "Lo vedi Francè. A che serve tirarsi indietro se poi un domani non hai l'opportunità di andare avanti?". Ragionamenti tipici di uno shock.

Sono diventato un po' più cazzuto e superficiale. Meno profondo di prima, più aperto alle delusioni ma anche più coraggioso dal punto di vista morale. Mai prima di allora avrei pensato di poter guardare una donna negli occhi ed essere sincero, e invece lo feci, pagandone anche le conseguenze. E mentre lo facevo pensavo a lui, a quello che stava passando e a come aveva iniziato a  lottare. Pensai che nella vita a volte non bisogna riflettere più di tanto, ma agire. E l'ho fatto altre volte, non solo quella sera. Tante volte in questi mesi che nemmeno riesco a contarle. E' impresa impossibile farlo ora, su due piedi. 

Mentre scrivo sono affranto e mi riesce difficile perfino sviluppare il più semplice dei ragionamenti. Spero solo che un giorno queste lacrime serviranno a qualcosa, ma come potrebbero? Carmelo non c'è più. Se n'è andato nel peggiore dei modi, a soli 37 anni. Senza esultare ne' correre verso il settore ospiti come fece nel Marzo 2005 al Partenio.


Il vuoto è incolmabile. Arrivederci Gladiatore.

FRANCIO


mercoledì 13 febbraio 2013

Ho lanciato una bustina a papà...




(... e l'ho reso felice).
No, tranquilli. Nessun esame, nessuna laurea, nessun premio o articolo di "successo". Devo ammettere che è servito molto meno di una pila di libri da studiare per far sorridere papà. Per vedere nei suoi occhi la stessa luce che sprigionavano quando era bambino lui e quando lo ero io.
Ho sempre ritenuto che sui sorrisi non si può barare. Quando sorridi per finta lo si vede subito. Quando invece sei sincero non solo cambia la tua faccia, ma anche la tua anima.

Ieri sera mamma e papà erano andati a fare visita a zia Carmela e io e il mio raffreddore li abbiamo raggiunti un'oretta dopo. Prima di parcheggiare definitivamente la macchina di fianco al portone, ho deciso di fare tappa all'edicola accanto per comprare dieci pacchetti di figurine.
Lo so, alla mia età andrebbero  di moda le sigarette, ma una settimana fa, a tarda sera, scovai papà che quasi di nascosto incollava i "Calciatori" sul suo nuovo album. Quando mi vide non aveva una faccia tranquilla; reagì come se lo avessi scovato con le mani nel barattolo di marmellata.
"Ma che stai facendo?"  - gli chiesi ridendo. "Niente, stavo vedendo una cosa...". Questa la sua risposta. Decisamente balbettante.

Sarò anche un po' imbranato ed impacciato, ma non così scemo. Capii fin da subito che stava iniziando la raccolta e che aveva intenzione di rivivere le emozioni del tempo che fu.
Quando ero bambino mi riempiva di pacchetti. Me li faceva trovare la mattina sotto al cuscino e la sera a cena sotto al piatto. Io ero contentissimo di scartare, anche se i calciatori li conoscevo a stento. Quando sei bambino  - ma anche adesso, nel mio caso - non vedi l'ora di scartare pacchi o regali. E' una cosa che ti gratifica.

C'è da dire che negli anni Novanta le figurine costavano molto meno rispetto ad oggi, quindi ci si poteva anche sbizzarrire, in un certo senso, comprandone in quantità davvero maestosa. Ora sto capendo che probabilmente io ero solo la giustificazione di quel giochino. Che non ero altro che il ponte tra il suo passato, il suo presente ed il suo futuro. Una cosa bestiale. Fantastica, al solo pensiero.

Tornando a ieri sera, dopo aver salito le scale insieme a Floriana ed averlo trovato sul divano a guardare la televisione con mamma e zia, ho deciso di lanciargli una bustina.
Così, all'improvviso. Proprio come faceva lui una quindicina di anni fa.
Tutto d'un tratto i suoi occhi erano identici ai miei un decennio e mezzo fa. Stesso discorso per la sua reazione:

- "Ma come Francè? Una sola?".


 - "Sì, sì, sì... una sola papà..."


Le altre nove gliele darò piano piano.
"Una alla volta. Altrimenti non c'è sfizio, dai...".
Me lo diceva sempre, quando ero un marmocchio. Ora sono clamorosamente io a ricordarlo a lui.


FRANCIO










mercoledì 6 febbraio 2013

Ma tu, dove sei?






Dove sei mentre annaspo in un mare di carta?

Dove sei mentre perdo le mie convinzioni?

Dove sei mentre sciupo il mio tempo ad immaginare?

Dove sei quando ti imploro e ho bisogno di te?

Dov'eri quando ci hanno insegnato che le cose più belle si costruiscono insieme?

Insieme. 

Parola inutile, probabilmente. Se solo non ci fosse qualcuno a darle un senso.

Io ti aspetto, ma tu dimmi dove sei. E svelami il tuo vero volto.


Francio

sabato 2 febbraio 2013

Casa Famiglietti





Sentirsi un forestiero nella propria città. "Casa Famiglietti" è il luogo in cui forse mi sono riscoperto per la prima volta un ospite nel mio territorio. Mai avrei pensato che in un appartamento alle porte del Triggio (quartiere storico di Benevento) sarei rimasto coinvolto da un'atmosfera così poco sannita ed esageratamente "global".
Pina è la padrona di casa. Ragazza solare, alla mano e... irpina! Già, forse nel suo nome c'è anche la provenienza (per i meno abili nei giochi di parole, ir...Pina. Appunto!). La prima volta che ci ho messo piede lei non era presente e a fare gli onori di casa furono le sue coinquiline Giulia, Simona e Antonella. 
Qui andrebbero tracciati identikit precisi, ma visto che di pomeriggio amo scrivere a braccio, vi lascio giusto immaginare che persone siano. Simona è pugliese di Barletta, appassionata fotoreporter per finta, vegana e soprattutto esuberante. Se le metti in mano una videocamera sei finito. 
Documenta per filo e per segno ogni tuo atteggiamento per poi montarlo in appositi video pubblicati ad arte, Divertenti e appassionanti, proprio come le serate che viviamo quando ci ritroviamo.
Giulia e Antonella non sono da meno. La prima è di Alife, provincia di Caserta, la seconda di Ariano Irpino. Stanno al gioco (qualche volta anche troppo... vero?) e menano le danze fornendo spunti al nostro diverimento. Pina ha un unico difetto, ed è inutile che vi dica qual è... per il resto, se si convertisse alla fede giallorossa, sarebbe totalmente a posto. Ma giusto domani c'è il derby quindi non voglio dilungarmi su questo aspetto altrimenti finiremmo anche per bisticciare... A lei va il mio grazie per l'ospitalità mostrata in ogni occasione.
Sapete, è davvero difficile scrivere di casa Famiglietti. pensavo fosse più semplice. Sarà che là dentro non si ragiona più di tanto e ci si da alla pazza gioia, ma non riesco a documentare attraverso la scrittura le nostre pazzie. Il che, conoscendomi, è abbastanza preoccupante. Posso solo dire che in quell'abitazione perdo la concezione dell'essere padrone di casa e mi riscopro forestiero all'ombra delle Mura Longobarde. Una cosa strana che nella mia città non mi era mai capitata.

Ma come si suol dire, c'è sempre una prima volta...

Vi lascio con un video di Simona. Sono certo che valga molto più di quanto scritto finora. E' terribile buttare giù venti righe senza aver raggiunto il proprio scopo. Ma non mi va di cancellarle, quindi le pubblico lo stesso. Sono pur sempre meglio di niente...


A presto, casa Famiglietti!






venerdì 1 febbraio 2013

Il dolce respiro di una fotografia



A far capolino tra i libri di Storia Contemporanea ed il mio nuovo computer non è altro che una fotografia. Emerge dal nulla come un cammello nel deserto o un albero in fondo ad una strada sterrata.
E' uno degli scatti a cui sono legato di più, tanto è vero che è forse l'unico reperto che ho deciso di incorniciare e a cui fornire il giusto risalto. Si riferisce ai quarant'anni di mia madre, 16 agosto 2000.
A Castelpagano -  paese al confine con il Molise -  in quel periodo dell'anno si respira sempre un'aria fresca, ben diversa da quella a cui siamo abituati in città.
Come ho già scritto in passato su questo blog, Castelpagano è il paese dei miei nonni, conta meno di duemila abitanti e gode di un'età media avanzata che probabilmente lo condannerà ad un ulteriore svuotamento nei prossimi anni. Ma non è del paese che voglio parlare. Stavolta preferisco concentrarmi sulla foto.

Quando sfoglio l'album dei ricordi provo sempre sensazioni particolari. Innanzitutto penso ai momenti vissuti insieme alla mia famiglia, alcuni dei quali conservo ben impressi nel cuore e nella mente. Poi mi rendo conto che ho avuto da sempre la fortuna di far parte di un gruppo unito, che ha remato continuamente nella stessa direzione tenendo un gran ritmo. Più passa il tempo e più capisco che non è una cosa da poco perchè non tutti hanno la mia fortuna.  
Per fare un esempio banale, teoricamente io sarei figlio unico da quasi ventitrè anni ma nella pratica questa cosa non l'ho mai avvertita. Il perchè è spiegato anche da questo scatto. Quattro sorrisi sinceri di quattro persone fondamentalmente diverse.

A sinistra rispetto a mia madre c'è Gianmarco, il mio cugino più "famoso" per peripezie, avventure ed incidenza. Lui nel duemila aveva appena quattro anni. Cosa volete che ne capisca di una foto un bambino di quell'età? Eppure sorride, abbraccia mamma e si presta al gioco. Dall'altra parte c'è Floriana, altra mia cugina, tre anni più piccola di me. La conosco abbastanza per sbilanciarmi: da come guarda l'obiettivo mi viene da pensare che chi aveva in mano la macchina fotografica stesse facendo una battuta che le piacesse. Flo ha un umorismo diverso dal mio, si è sempre distinta. Ride solo per battute serie (ecco perchè raramente riesco a farla sorridere...). Devo riconoscere che chi aveva sparato la sua "massima" in quel momento aveva fatto bingo perchè Flo sembra abbastanza soddisfatta...
Quanto a mia madre, ho sempre avuto un debole per lei. Chiaro, non solo perchè è mia madre. La ritengo davvero una persona eccezionale, soprattutto vista con occhi esterni. A volte mi piace osservarla senza partecipare attivamente alle sue azioni e me ne rendo conto.  Un po' premurosa (va detto, non solo con me) ma sempre gentile ed aperta con tutti, talvolta sbagliando. Credo che questa sia la caratteristica di chi ama la vita in tutte le sue sfaccettature. A quarant'anni sei a metà del viaggio e inizi anche a guardarti indietro. Quel giorno lei era felice, lo ricordo perfettamente. E se arrivi felice a quarant'anni, non puoi fare a meno di sperare che quelli successivi saranno migliori dei precedenti...

Ecco, la speranza - di cui mi nutro quotidianamente - me l'ha inculcata lei. Spesso sperare mi mette in difficoltà, ma da quello che so se non accompagni questo elemento con delle azioni, non serve a niente. Insomma, la speranza è come l'insalata. Va accompagnata con un po' di condimento, altrimenti hai voglia ad aspettare che prenda sapore...

Chiusa questa breve parentesi, quasi dimenticavo di parlare di me. Del "me della foto".  Rido anche io, con un sorriso da pagliaccio (stavo già imparando ad esserlo nonostante i miei dieci anni...). In realtà, a parte i capelli e qualche dente che ho sostituito, non sono cambiato di molto. Un eterno Peter Pan che crede ancora nell'Isola che non c'è... 


FRANCIO
















giovedì 17 gennaio 2013

Un addio silenzioso




Ricordo la prima volta che entrai nella redazione di beneventofree.it . Era un giorno di luglio, anno 2009.
Faceva caldo, un caldo afoso, di quelli che ti sciolgono come un gelato anche se non hai sangue nelle vene. Per un ragazzo dal cuore giallorosso e con la passione per il giornalismo, erano tempi duri. Il Benevento aveva appena fallito il suo appuntamento con la storia perdendo una maledetta finale play off contro il Crotone e io avevo provato invano a chiedere di collaborare per il Sannio Quotidiano. Nemmeno una gara di terza categoria, tutto pieno. D'altra parte era difficile poter scommettere su un ragazzo poco più che maggiorenne.

Inviai una email alla redazione di beneventofree e vi entrai avvolto dallo scetticismo. Non chiesi di scrivere sul Benevento, sarei stato un presuntuoso. Chiesi di scrivere per qualsiasi cosa perchè il mio obiettivo era dare sfogo alla fantasia, oltre che al mio pensiero. E così ai primi di agosto fu pubblicato un articolo-inchiesta sul Paladua, poi via via molte cose sulla pallamano, fino ad arrivare alle notizie sulle altre squadre del girone dei giallorossi.

La mia presenza costante ed un corsivo scritto con un pizzico di estro, fecero sì che Antonio -  il mio direttore - si convincesse a gettarmi nella mischia e affidarmi una pagina su Giallorossi Free Magazine, il periodico distribuito allo stadio prima delle partite del Benevento. Per me, che collezionavo il giornale da mesi, era un sogno realizzato. Sul foglio che presenta la partita e di cui si nutre il tifoso sfegatato, ci sarebbe stata la mia firma. 

Ricordo che quando fu pubblicata la mia prima intervista mi scese una lacrima. Di lì a poco le lacrime si sarebbero moltiplicate, perchè a ritmo di impegno e volontà avrei scritto diverse volte in seconda pagina, fino ad arrivare all'appuntamento fisso in Prima, al fianco dell'editoriale del direttore. La fiducia in me aumentò di mese in mese e tra web e cartaceo mi sentivo realizzato. Non percepivo neppure un euro ma non mi fregava granchè dei soldi: sono stato sempre convinto che il potere dei desideri non è quantificabile in soldi. 

Questo ragionamento, abbinato a quel giornale - anzi, quei giornali -  mi ha fatto crescere e maturare. Mi ha spinto lontano da amicizie e donne. Una su tutte la mia ex che odiava profondamente il mio lavoro, definito "una perdita di tempo". Non ha mai capito che nel mio cuore non c'era spazio solo per lei, probabilmente, ma non gliene faccio una colpa. Non è da tutti comprenderlo. 

Quel giornale - dicevo - mi ha privato di tante cose senza mai farmi sentire il peso della rinuncia. Quel giornale mi ha regalato sorrisi quando il mondo si era dimenticato di me e quando la notte era davvero buia e tempestosa. Beneventofree è stato e sarà sempre un pezzo della mia vita. Non per il nome, non per retorica ma per sensazioni che a stento più di un paio di esseri umani sono riusciti a donarmi in questo arco di tempo. 

Sono stati tre anni e mezzo fantastici ricchi di gioie e dolori, di sorrisi e pianti. Dalla maratona in redazione per l'arresto di Paoloni, quando rimasi con l'editore a mangiare un panino con il salame per non distogliere lo sguardo dagli aggiornamenti, fino ad arrivare alla stampa del giornale con quell'odore d'inchiostro che saliva dal seminterrato - dove stampavano le copie - e si attaccava sulla mia pelle fino alla doccia successiva. 

Ricordo degli ultmi minuti di calciomercato, quando con Antonio era una corsa contro il tempo per pubblicare la notizia dell'acquisto o cessione. E ricordo soprattutto il saluto alla redazione di via Pirandello 12, ormai svuotata di ogni alone magico per via di una crisi che non ha risparmiato proprio nessuno. L'abbraccio con il grafico, i dipendenti. L'in bocca al lupo dell'editore per una nuova vita che si sperava fosse più semplice. Più equilibrata dei salti mortali a cui ci eravamo abituati negli ultimi mesi, quando mancavano anche i computer per lavorare. 

L'approdo alla nuova sede di via Santa Colomba (già, "l'approdo"), ha cambiato la fisionomia del giornale e soprattutto la sua anima. Niente più esclusive, niente più news in anteprima, niente più critiche. Anche se avevamo una notizia fresca al pomeriggio, dovevamo darla all'indomani per non causare disguidi al quotidiano di riferimento appartenente allo stesso, nuovo, editore. 

Sono stati e sono ancora tempi duri, con le visite dei lettori giornalieri comunque in crescendo, a confermare la grandezza del lavoro svolto da Antonio in primis e poi da me me dall'amico e collega Ivan. Un mastino, una lepre, un leone Un topolino. Uno che a seconda dei casi sa agire come serve. E sempre con tempismo, senza deludere. Il nostro segreto è sempre stato il gioco di squadra e i gol sono stati tanti. Tantissimi.

Ora, giovedì 17 gennaio, qualcuno si è stancato di vedere quei gol e la missione sembra al capolinea per decisioni che pendono dall'alto. Probabilmente, se la testa mi dirà così e dirà così anche a chi comanda,  mi ritroverò senza lavoro e ciò che questa avventura mi ha riservato sarà testimoniato dal solo tesserino di giornalista ritirato ai primi di gennaio.

Imprevedibilità della vita, sfortuna o semplicemente destino? Non so di cosa si tratti. Ciò di cui sono convinto e contento, è solo il mio sogno. Quello non lo abbandonerò mai, al diavolo gli ostacoli. 

Come uso spesso ripetere agli amici, mi appoggio ad una massima:  "se la strada intrapresa è in salita e ricca di  insidie, probabilmente è quella che porta al traguardo". 

E il mio traguardo non cambia. Forse è solo giunto il momento di iniziare a correre più veloce...

FRANCIO