mercoledì 10 agosto 2016

L'ultima fermata

Le pareti del corridoio sembrano rifiutarsi di rimanere bianche. Tra le foto di un tempo che non c'è più spunta una frase le cui parole sono messe insieme da un collage di cartoncini colorati: "L'unica cosa che si possiede è l'amore che si dà". La firma è di Isabel Allende, ma tra gli inquilini sono pochi quelli che se ne curano. C'è chi ha vissuto nell'analfabetismo, chi la memoria la sta lentamente perdendo a causa della malattia, chi si sta spegnendo pian piano, lentamente, prima di lasciare a chi gli ha voluto bene il ricordo di una vita vissuta proprio seguendo alla lettera le parole impresse sul muro come un mantra.

Se la nostra vita fosse un lungo viaggio, le case di riposo sarebbero l'ultimo autogrill prima di giungere a destinazione. Un ultimo autogrill molto somigliante al primo. Un asilo per anziani, un luogo fuori dal tempo, dalle logiche della realtà circostante, dal rumore a volte insopportabile della quotidianità. Si sta lì a salutare pacatamente ciò che è stato aspettando quel che sarà. Una riflessione triste, angosciante, drammatica. Ma se nella vita hai dato tutto l'amore che avevi, in fondo, avrai il piacere di raggiungere il traguardo a braccia levate. Che non vuol dire solo aver lasciato in eredità il tuo ricordo, ma anche aver contribuito a riempire quell'infinito sgabuzzino in cui vengono custoditi i valori umani. Quelli che oggi, ahinoi, cerchiamo spesso tra i vivi senza fortuna.

(Santa Croce del Sannio, 9 Agosto 2016)

mercoledì 21 ottobre 2015

"Cosa sei disposto a perdere?"



Dovremmo porcela un po' più spesso, questa domanda. Dovremmo porcela soprattutto quando ci troviamo davanti due occhi che ci guardano con l'intensità che raramente riscontriamo nelle persone comuni. Quella luce tipica di chi ci vede come neanche noi sappiamo vederci; di chi vede in noi qualcosa che probabilmente neanche siamo per davvero. Ma quegli occhi sono lì, ci osservano come nessun altro ci ha mai osservato. E ci danno conforto. Sono gli occhi cazzuti dei visionari, di quelli che pensano di vedere cose che altri non vedono. A volte si sbagliano, altre no. Altre forse.

Non sono difficili da riconoscere, quegli occhi. Ti accorgi di loro perchè osservano l'anima, non il viso. Parlano al tuo cuore e non al tuo cervello. Credo che per ognuno di noi sia una fortuna incrociare un paio di occhi così. Una, due, tre, magari tante volte nella vita. La loro presenza fa sentire bene, al riparo da ogni cosa. Quando li incontrate, quando capite che la persona che avete di fronte non sta scherzando con voi, fate a voi stessi questa domanda. 

Per i legami forti si perde sonno, si perde tempo, si perde la pazienza (soprattutto quella), si perdono soldi, energie, treni, bussole, a volte tutto. Altrimenti non sarebbero legami forti. Per loro bisogna rischiare. E se non si è disposti a rischiare qualcosa è probabile che non si sia pronti a voler bene. A voler bene davvero.  Ma è giusto saperlo prima, farsi prima quella domanda. "Cosa sono disposto a perdere?". Porsela prima di iniziare un'amicizia, una relazione, una qualsiasi cosa. E dopo essersela posta, comunicare la risposta a quegli occhi lì, positiva o negativa che sia. Ma farlo all'istante, fin da subito. E' una forma di rispetto unica al mondo: si chiama sincerità.
Francio



giovedì 13 novembre 2014

Tesi, ma non troppo


Mi trovo a cento metri e una quarantina di scalini dal luogo in cui tutto è partito. Questo blog nacque in Molise nel 2011 per necessità, l'ho aggiornato per impegno (più che altro con me stesso) e curato per diletto. Non sono rari i casi in cui mi sono dilungato a parlare di cose poco coinvolgenti, aneddoti personali, stati d'animo e ragionamenti talmente banali da risultare noiosi e talvolta annoianti.
A undici mesi dall'ultimo post però ho sentito il bisogno di lasciare un' impronta, un segno tangibile all'interno di una giornata come tante solo all'apparenza. Dopo mille sbattimenti, correzioni e semplificazioni, è probabile che oggi riesca a trovare un compromesso per compiere un passo importante verso la laurea. Chi mi conosce sa che non amo le formalità.  I passaggi semplici non sono mai stati il mio forte. Non lo sarà neanche questa tesi, che se tutto va come deve andare avrà come fulcro un argomento misero e semplicistico. Ma mai come oggi avverto dentro me l'importanza del percorso. Qualcuno sostiene che al termine di un viaggio l'emozione del tragitto conti più della meta. Non conosco con certezza la verità, ma mi voglio fidare. Per una volta. 

mercoledì 15 gennaio 2014

Negli occhi di Brigitte



Il Molise esiste. Ed è una terra meravigliosa. Perfino Castelpagano, il paese della mia infanzia, pur trovandosi in provincia di Benevento ha tutti i contorni di un borgo molisano.
Mi ricorda un po' Macchiagodena, paese dell'Isernino che ho avuto il piacere di assaporare. E' lì che vive la mia amica Brigida insieme alla sua famiglia. Una casa splendida e un clima che solo chi guarda la vita esclusivamente con gli occhi potrebbe definire solitario. Il cuore dice che la natura di quel posto può donare l'ispirazione per qualsiasi cosa. Un libro, una canzone, una poesia.

Ci sono stato solo una volta ma il luogo è di quelli che ti richiamano a sé fortemente, se non altro per farsi scoprire meglio. Non nascondo che la tentazione di tornarci mi stia venendo tutta d'un colpo.
Ciò che mi stupisce maggiormente sta nel collegamento tra Brigida e il suo paese. Con lei ho condiviso diversi anni di università e ogni volta che mi parlava di casa sua io la immaginavo esattamente come l'avrei poi vista di persona. E credo che una volta varcato il confine sia stato proprio questo il mio primo pensiero: "E' esattamente come la dipingevo guardandola negli occhi".

Gli occhi di Brigida parlano di una persona solare, riflessiva e straordinariamente semplice. Racchiudono non solo la tranquillità di Macchiagodena ma anche la curiosità di chi ha fame di avventura, l'estro di chi odia i preconcetti. Si vede fin da subito che ha voglia di scoprire ma è convinta che per girare il mondo non sia necessaria un'automobile. Anzi,  l'automobile serve solo se a guidarla è qualcun altro. Preferisce guardarsi intorno, scrutare e capire. E Macchiagodena era il posto giusto per crescere e sviluppare questo senso di curiosità. Che parte da una terra meravigliosa ancora incontaminata ed è destinato ad espandersi in tutto ciò che compie quotidianamente. E c'è un elemento su tutti che sta lì a testimoniarlo: non ama apparire in foto, piuttosto preferisce far apparire in foto ciò che sente dentro.

I suoi occhi lo dicono. La sua presenza, sporadica ma forte, lo testimonia. Brigitte è una persona coraggiosa. Di quelle che nell'ultimo chilometro di una maratona, quando sei senza fiato né gambe, ti impediscono di ritirarti, ti incoraggiano e ti danno ristoro. Succede solo a chi ha capito il vero senso della vita.

Francio

lunedì 30 dicembre 2013

Trema la terra, tremano le gambe


In questo mondo pieno di contraddizioni non posso fare a meno di notare come un avvenimento potenzialmente drammatico possa trasformarsi in motivo di aggregazione. Me ne resi conto con la morte di Giovanni Paolo II per la prima volta, ma in realtà c'erano già state altre prime volte senza nemmeno che me ne fossi accorto. Il Papa era morto ma una folla impressionante di fedeli si ritrovò a fare quadrato, unita nel dolore. Poi altre circostanze drammatiche hanno invaso la mia vita rafforzando questa tesi. Una volta credevo di aver commesso un omicidio, ma per fortuna mi sbagliavo. Ero nella mia Panda, un signore attraversò la corsia d'improvviso e lo investii. Riuscii a frenare all'ultimo secondo solo grazie all'aiuto di chi mi era accanto, altrimenti sarebbe andata diversamente. Sono sicuro che rivedendo quella persona la inviterei a prendere un caffè per scambiare quattro chiacchiere. E sono ancora più sicuro che lui quelle quattro chiacchiere con me le scambierebbe volentieri. Eppure quel giorno potevamo rimetterci al vita entrambi. Lui avrebbe potuto morire, io non avrei sopportato il peso di una cosa simile. 

Ma aldilà di questo, delle circostanze che mi portarono a compiere maldestramente un gesto simile e delle conseguenze che si ripercossero sul mio modo di vivere le due settimane successive, resta la stranezza. Le emozioni forti uniscono le persone, e la natura di queste emozioni conta davvero poco. 

Circa mezz'ora dopo la scossa di ieri pomeriggio sento  squillare il telefono di casa. Il prefisso è di quelli inusuali: "059". Mai visto, ma considerando che era domenica la probabilità che fosse un call center erano minime. La telefonata arrivava da Modena e dall'altro capo del telefono c'era una certa "Zia Grazia". Una voce anziana, che non avevo mai sentito in vita mia. Probabilmente l'avrò anche sentita in passato, ma se così fosse mi gioco qualsiasi cosa che ero talmente piccolo da ricordarmene. "State tutti bene, sono preoccupatissima". Mai sentita per gli auguri, mai vista di persona dopo i 4 anni di età, mai ragionato dell'esistenza di una cugina di mio nonno stabilitasi in Emilia. Eppure era preoccupata per me. Mi chiamava per nome e aveva una voce di quelle che non riescono proprio a fingere. 

Chiamiamoli pure legami di sangue, ma cos'è questa telefonata se non qualcosa di aggregante? Ero solo in casa, ma quando sono tornati i miei ho fatto richiamare a quello strano numero. Papà è stato mezz'ora al telefono aggiornando questa zia di eventi verificatisi negli ultimi due, tre anni. Ai tempi del web 2.0 mi è sembrata davvero una cosa fuori dal mondo. Mi ha ricordato di quando giocavo con la palla nel salone dei miei nonni, ancora ignaro di cosa fossero un computer e un cellulare. Un modo alternativo di parlarsi che credo andrà scemando via via. Così come vedo sempre meno bambini conoscere l'esistenza del Subbuteo, gioco da tavolo sul calcio che mi ha giocato un ruolo decisivo sulle mie ambizioni. Prendevo i giocatori, li disponevo in campo e iniziavo a fare una partita da solo. Avevo otto anni, mia nonna era uno splendore e mi ascoltava mentre facevo la telecronaca di un'improbabile partita. 
A proposito, nonna... vabbé. Te ne parlo la prossima volta.

Francio



martedì 3 dicembre 2013

Lettera a Santa Claus

Caro Babbo Natale,
sono trascorsi tre lustri da quando ho capito che non esisti per davvero. E quando si comincia a ragionare per lustri, lo sai meglio di me tu che hai i capelli bianchi, vuol dire che ci si sta avviando a non essere più bambini.

Eravamo in macchina fermi ai semafori che dividono il Rione Ferrovia dal resto della città, quando sparisti improvvisamente dal sedile posteriore volando via come un dolce ricordo. Lo sai, ho sempre avuto quel brutto vizio di fare troppe domande a costo di mettere in difficoltà l'interlocutore, eppure quella sera di dicembre tutto partì dai miei genitori: "Ancora non ci hai detto cosa vuoi che ti porti Babbo Natale, perchè non ne parliamo?". Non glielo avevo detto perchè non volevo svelare nulla. Ti avevo scritto una lettera in modo che solo tu sapessi cosa ci fosse scritto all'interno, poi l'avevo nascosta in un cassetto come si usa fare con i sogni.

"Quest'anno non voglio dirvelo, sarà una sorpresa anche per voi". Risposi fieramente dal basso dei miei otto anni. Notai fin da subito che non ne furono felici. Anzi, disorientati è il termine giusto. Avevo condiviso qualsiasi idea con loro fino a quel momento, e nascondergli i contenuti di un mio desiderio doveva sembrargli una cosa da adolescenti, più che da bambini. Ma se c'è una cosa che mi ha sempre lasciato un senso di disagio (e sono certo che sai anche questo...) quella è il silenzio. Mi riferisco al silenzio immotivato, quel genere di silenzio che fa seguito ad un'affermazione seria. Quello che arriva quando invece sei più che sicuro che il tuo interlocutore dirà qualcosa per controbattere.

Niente, loro non parlarono. Non so tu come avresti reagito, ma so quello che feci io. Rincarai la dose.  "Ma posso chiedervi perchè volete saperlo?". Niente. Ancora silenzio, silenzio, silenzio. Fino alla domanda più triste, che da ventitreenne ora paragonerei ad un "Quindi non mi ami più?" rivolto alla propria fidanzata in un momento di crisi.  "Voi pensate che Babbo Natale non esiste, vero?". Inutile dirlo. Silenzio.

Ho sempre ritenuto che non seppero comportarsi. Nelle parole non furono abbastanza lucidi e le loro menti risultarono incapaci di qualsiasi tipo di improvvisazione. Papà alla guida, mamma accanto e io dietro di loro insieme a te. Avevo otto anni, che a molti potrebbero anche sembrare troppi per un bambino che smette di credere in Santa Claus, ma ti assicuro che non lo sono mai stati per uno che i bambini li adora. Il fatto che quella sera sia ancora stampata nella mia mente, poi, la dice lunga sulla mia ammirazione nei tuoi confronti. Non sono riuscito a dimenticarla nemmeno a distanza di quindici anni, ricordando dettagli che in altre circostanze brucerei in un baleno.

Siamo al 3 dicembre ed è presto per parlare di alberi, regali, renne e qualsiasi altro tipo di cosa legata alla Festività più amata nel mondo, ma ricordo che era proprio di questi tempi che da piccolo impugnavo la penna, prendevo un foglio, e scrivevo righe improbabili colme di complimenti rivolti a te, una sorta di nonno vestito di rosso. Internet ancora non esisteva e le lettere impiegano generalmente diverso tempo per arrivare in Finlandia.  Il vantaggio di avere un blog, tuttavia, sta tutto nel poterti scrivere qualcosa senza preoccuparmi della mia terribile calligrafia. Quella è cambiata pochissimo, nonostante gli anni. E' fatta un po' come me...

Francesco


lunedì 11 novembre 2013

"Dal face to face a Facebook..."



Ricordo di una ragazza al primo anno di Università, a Campobasso. Aveva una certa vitalità ed una predisposizione innata a risultare anticonformista agli occhi di noi altri. Confessò apertamente -  durante una lezione di Sociologia e davanti ad un'aula gremita  - di non possedere il computer e di essere totalmente indifferente all'uso dei social network. 

Ora vi sarà facile immaginare la reazione dei presenti, professore compreso, davanti ad una dichiarazione simile. Ci fossimo trovati ad una riunione degli alcolisti anonimi o ad una sagra enogastronomica la stranezza non sarebbe stata neppure messa in conto. In realtà eravamo nell'Aula "120" di Viale Manzoni, e per giunta ad una lezione di Sociologia della Comunicazione. Insomma: lì il computer o ce l'hai oppure sei strano. 

Sono trascorsi quattro anni e ricordare quell'episodio mi fa ancora un certo effetto. Innanzitutto mi fa presente che sono indietro di brutto con la tabella di marcia relativa alla laurea, ma il nocciolo della questione è rappresentato dal fatto che non ricordi nemmeno il nome di quella ragazza. E non è una dimenticanza giustificata. I nomi dei nostri contatti virtuali, dopotutto, ce li sbattono in faccia i Social. Mica ce li ricordiamo perchè abbiamo un'ottima memoria.

Da quel pomeriggio piovoso molisano, comunque, Facebook ha preso sempre più piede nelle nostre vite e nella mia in particolare. E da quando è arrivato il mio primo smartphone (all'epoca avevo ancora il "vecchio" Nokia N95) sento che la mia esistenza è stata rivoluzionata in modo decisivo. L'umanità che sentivo parte integrante della mia persona è andata via via smarrendosi. Buona parte dei rapporti umani che componevano la mia quotidianità si sono sgretolati per far spazio a finte relazioni virtuali, utili solo illusoriamente a conoscere bene qualcuno. 

Non mi sento schiavo della tecnologia, mi sento più che altro schiavo di quella parte di me che non può farne a meno. Quante persone avvertirebbero la nostra mancanza se non fossimo su Facebook e What's App? A quanti interesserebbe davvero di noi, del nostro lato umano? Quanti vorrebbero conoscerci realmente, al di fuori della sfera virtuale? E poi... vi è mai capitato di uscire con una o più persone e scoprire che queste preferiscono guardare il cellulare e chattare con chi non c'è anziché dialogare di persona, guardando negli occhi l'interlocutore?

In un pomeriggio senza redazione, comunicati stampa, articoli e play station, pensare ad un mondo senza mostri come Facebook e la tecnologia 2.0 in generale è stato quanto di più produttivo sia riuscito a fare. La cosa buffa è che tutto sia partito da quella lezione di un po' di tempo fa nell'Aula 120 e che sia strettamente collegato al titolo del mio tema all'esame di maturità: "Dal face to face a Facebook: cambia il modo di comunicare". Ora come ora, con un po' di esperienza in più, correggerei la seconda parte. 
Non è cambiato solo il modo di comunicare, è cambiato il modo di vivere


Frà