L'atmosfera del terminal, al mattino, mi mette di buon umore. Non chiedetemi da quanto tempo me ne sia accorto, ma di certo non più tardi di tre anni fa. La prima volta che ho iniziato a frequentare questo posto, sede legale del multiculturalismo studentesco, è stato un giorno di autunno del 2009.
A Benevento non ne avevo mai vuto l'occasione, non avvertendo mai il bisogno di utlilizzarlo (avevo la scuola vicino casa...) ed è per questo che vi parlo ancora di Molise, e quindi di Campobasso.
Con la città di "San Giorgio" non è che abbia un rapporto idilliaco, diciamo che ci sopportiamo a stento - e questo avrete avuto modo di capirlo leggendo il post precedente - ma c'è qualche suo aspetto che paradossalmente finisce per affascinarmi, lasciando incredulo persino me stesso.
Dicevo del terminal, ad esempio, che di prima mattina è un via-vai continuo. Ragazzi di tutte le età e da ogni parte del Molise (ma anche da fuori, come nel mio caso) raggiungono l'ambita meta per andare a scuola, seguire i corsi universitari o bidonare entrambi. In questo contesto di confusione, alle orechie di ognuno arrivano le varie inflessioni dialettali che non si può proprio fare a meno di ascoltare. E' una bella sensazione, e quello che comprendo dai discorsi scambiati tra i ragazzi delle scuole superiori mi fa capire che dopo tutto non è che sia cambiato tantissimo rispetto ai miei tempi. Si vedano le ansie causate da imminenti compiti in classe e interrogazioni.
C'è poi anche un altro aspetto, quello legato ai rapporti sociali. Per molti il terminal è il luogo di cinque minuti, quello di passaggio. Un posto in cui resti poco, saluti qualche amico, ci scambi quattro chiacchiere, e poi vai via verso il tuo "dovere". Battute su cosa ha fatto la tua squadra il giorno prima, sul campionato, sulla tua famiglia, sul tempo libero, sui compiti e ciò che ne consegue. Tutto, per alcuni, inizia e finisce lì, in quei cinque minuti.
C'è poi chi quei tremila secondi li utilizza in modo diverso, come nel caso dei due fidanzatini appostati al palo del gate 21. Non so dargli un nome, non conosco le loro identità, ma so che ogni mattina si salutano come se fossero all'ultimo incontro. Con il gelo di questi tempi, camminare farebbe più che bene per stare un pò più caldi, ma loro non ne vgliono sentir parlare. Restano abbracciati, persi nell'infinito dei loro pensieri rivolti chissà dove.
Quando li vedo mi sento meglio, quasi più carico per affrontare la giornata universitaria - e credetemi, poco dopo le sette del mattino è difficile trovarne di carica.
Non so niente di loro e nemmeno voglio saperne. Avranno meno di diciotto anni, forse sedici, e si godono il momento come pochi. Saranno di paesi diversi? Presumo. Andranno a scuola insieme? Non credo, altrimenti quell'attimo non sarebbe così profondo.
Cento metri più avanti di tutto questo, c'è la biforcazione che divide in due la città. Oltre il confine del terminal inizia lo smistamento di formichine che, zaino in spalla, chi col sorriso e chi con la vista annebbiata, percorre la strada che li condurrà in aula per raggiungere la loro classe.
La terra di mezzo è ormai alle spalle e la scuola più vicina, ma circa sei ore dopo tutto si ripeterà per il processo inverso, che non racchiude però la stessa magia. Ad ora di pranzo, sarà la pancia vuota, sarà la stanchezza o qualcos'altro, quei due del gate 21, non li vedo più. Il palo è miseramente abbandonato a se' stesso, così come l'autista che attende di riempire il suo pullman parcheggiato lì davanti. Fa meno freddo e splende un pò di sole, questo sì. Ma loro, nel frattempo, che fine avranno fatto?
FRANCIO